I nomadi delle stoppie

la riflessione sabatina n. 13

i nomadi delle stoppeNella primavera 1963 l’attenzione dell’opinione pubblica era polarizzata sul boom economico strombazzato ai quattro venti assieme al mito dell’utilitaria e degli elettrodomestici a portata di tutte le tasche. Ma una rivista iblea, “Uomini Domani”, invitava i suoi pochi lettori a riflettere su un singolare fenomeno ormai prossimo al tramonto, di cui erano protagonisti i cosiddetti “spigolatori” di Modica, uomini e donne di ogni età e condizione fisica, che all’inizio dell’estate lasciavano le loro abituali dimore per trasferirsi in massa in mezzo alle stoppie della Sicilia interna a raccogliere le spighe cadute a terra dopo la mietitura. Ci andavano anche donne col pancione, bimbi in fasce e ottantenni; si portavano dietro il cane, la gatta, la gabbia con le galline, noncuranti del disprezzo della gente che li considerava “zanni”, nomadi, zingari.
Ma chi erano, in realtà? Erano figli di Modica, come Salvatore Quasimodo, come Tommaso Campailla (1668-1740). Quest’ultimo, erudito e poeta, fu anche fondatore di una scuola medica nella sua città, nonché inventore di una botte per la cura della sifilide; ma s’impose all’attenzione degli intellettuali di tutto il mondo soprattutto per le sue opere di filosofia stupendo il filosofo razionalista inglese George Barkeley, che venne a rendergli di persona l’omaggio di una visita nella sua Modica. Ora, è risaputo che non sono uguali neanche le dita della stessa mano; figurarsi gli uomini di una città. Gli spigolatori di Modica ovviamente non possedevano le stesse doti di Campailla e di Quasimodo ed erano poverissimi, senza molte occasioni di lavoro. Dovevano perciò inventarsi qualcosa per sbarcare in qualche modo il lunario. «Quando giunge il tempo delle messe – si legge sulle colonne di “Uomini Domani” – il contadino attacca il mulo al carretto e, provvisto di poche masserizie, le più adatte a una vita nomade, parte per l’interno della Sicilia. Ritorna in paese dopo qualche mese di vita dura, passata la notte sdraiato sulla nuda terra, all’aperto, e il giorno gironzolando per i campi. Riporta qualche sacco di grano rimediato con tanta fatica; gli servirà per i duri mesi dell’inverno, quando il lavoro è scarso e la miseria e la fame regnano nella sua squallida casa».
L’articolo, recante il titolo “Gli ultimi spigolatori”, era frutto di osservazioni dirette fatte dall’autore nell’estate precedente: «Li ho ancora qui, davanti a me, sullo stradale che il sole al tramonto colora d’ardesia. Sono tre carretti che, in fila, lentamente vanno verso contrade lontane, forse mai vedute. Le automobili veloci li sorpassano; qualcuna giunta in curva, è costretta a seguirli, e il conducente s’indispettisce, ha parole di stizza, perché vorrebbe correre e non perdere tempo». Poidomani sapeva bene che queste scene sarebbero scomparse nel giro di qualche anno. Perciò si sforzava di immortalarle, per quanto gli era possibile.
«E il contadino parte. Prepara il carretto, vi carica sopra la poca, estremamente necessaria suppellettile, la sposa sfiorita ancor giovane sotto il sole feroce delle estati, un bimbo avvizzito anzitempo: per quest’ultimo vi saranno riposi dentro una rozza culla, stesa come un’amaca tra due rami di mandorlo […] Intanto i carretti hanno acceso loro lumi, che tremulano come stelle cadute a terra. S’allontanano nella notte scesa improvvisa. Qualcuno ha tratto un marranzano e ne trae incerti accordi». Paradossalmente proprio da questi uomini che sembravano di altri tempi sarebbero venute le spinte decisive alla modernizzazione della società modicana. Ma quando era iniziato il singolare fenomeno tutto locale? La spigolatura c’era sempre stata nelle campagne modicane, forse fin dai tempi della denominazione romana, se è vero che l’aspro e remoto altipiano era largamente coltivato a cereali. D’altronde l’universalità di questa pratica è documentata dalla stessa Bibbia nel passo che racconta la vicenda umana di una progenitrice di Davide (e quindi di Gesù), la vedova Rut che andò a spigolare in un campo dove si stava mietendo l’orzo di Booz, l’agricoltore con cui la donna si sarebbe poi unita in matrimonio. In un quadro di Jean Francois Millet (1814- 1875) sono raffigurate tre donne che raccoglievano spighe in un campo di Barbizon, in Francia. Una ulteriore conferma della larga diffusione della spigolatura viene da una nota poesia di Luigi Mercantini, La spigolatrice di Sapri, che quelli della mia generazione abbiamo imparato a memoria, a scuola.
Insomma, prima dell’ultima grande “mutazione antropologica”, la raccolta delle spighe cadute tra le stoppie era una pratica comune a tutto il mondo. La Sicilia non faceva naturalmente eccezione. E lo sapevano bene i più attenti studiosi delle tradizioni rurali: da Serafino Amabile Guastella a Salvatore Salomone Marino, a Cristoforo Grisanti. Se quest’ultimo ebbe modo di spiegare che le spicalore di Isnello erano generalmente persone anziane che seguivano i mietitori e che potevano entrare nei campi già mietuti a condizione che prima si prestassero «a trasportare gratuitamente all’aia tutti i covoni», Salomone Marino documentò che il fenomeno era diffuso in tutta l’Isola e che dappertutto erano i proprietari a scegliere quali donne far spigolare: «le più povere ed ossequiami del settimo comando di Dio, e possibilmente non congiunte per parentela a mietitori». Aggiunse: «Tutta locale del Modicano è l’usanza che dà diritto al mietitore di portar seco, nel campo ov’è a falciare una sua donna (moglie, figlia, madre) come spigolatrice (spicalora). Si comprende bene che l’uso non abbia potuto trovare e non trovi accoglienza nel resto dell’Isola. Il mietitore che ha dietro una persona propria a spigolare ha interesse ad agevolarle il guadagno in tutti i modi e pertanto nello stringer l’ammansu, trova modo, per quanto sorvegliato dai padroni, di allentar la mano e lasciar cadere delle spighe».
Ma era condizione di privilegio, quella dei mietitori modicani? No davvero! Si trattava di una consuetudine affermatasi nella notte dei tempi come regola di «economia morale», direbbe Thompson. Come stessero esattamente le cose ebbe modo di spiegarlo Serafino Amabile Guastella, che conosceva bene i suoi villani. Si legge infatti nelle sue Le parità e le storie morali dei nostri villani che un certo Matteo era impossibilitato a saldare un debito per l’acquisto di un asino. Dopo aver cercato in tutti i modi di sfuggire al sequestro del somaro, il poveraccio offrì al padrone un’ipotesi di accordo: era disposto a falciargli un campo senza alcun compenso fino all’estinzione del debito, ma «col pane e col vino, s’intende, e col diritto della spigolatrice, s’intende benissimo». Il proprietario non ebbe nulla da obiettare.
Gli altri mietitori il diritto della spigolatrice di solito lo ottenevano accettando il sottosalario. In compenso potevano contare su una sorta di salario familiare di cui una parte (in denaro e in natura) predeterminata, e l’altra proporzionale all’impegno della donna al seguito. La composizione del salario contrattato – a detta di Sidney Sonnino – variava a seconda del prezzo del grano: quando questo cresceva, la mercede veniva corrisposta in gran parte in contanti, quando diminuiva, prevaleva la parte in natura. Nei primi anni del Novecento fu soppresso lo stesso diritto della spigolatrice, in conseguenza dell’esplosione demografica. Per ripristinarlo fu necessario che i braccianti, organizzati di recente in sindacato, proclamassero lo sciopero.
Fin qui ci siamo occupati della spigolatura al femminile e all’interno delle campagne modicane. Bisognava aspettare la fine della prima guerra mondiale perché interi nuclei familiari di Modica e di altri paesi del Ragusano scoprissero i latifondi della Sicilia interna. Non si creda però che il fenomeno abbia assunto immediatamente dimensioni vistose. Tutt’altro. Fu un lento avanzare, di anno in anno, di piccoli gruppi alla scoperta prima della Piana di Terranova (Gela), dei campi di Licata e di Butera e successivamente anche di contrade più interne coltivate da quei «muntagnisi» che li tenevano nella considerazione di zanni. Non per questo si arrestava lo stagionale nomadismo dei contadini poveri iblei che solo con la spigolatura potevano assicurarsi parte della mancia, cioè del fabbisogno alimentare per i lunghi periodi di disoccupazione.
Un’occasionale spinta alla crescita del fenomeno venne dalla «battaglia del grano» lanciata da Mussolini. I latifondisti del Nisseno, dell’Agrigentino e del Palermitano cominciarono a seminare cereali nei terreni già destinati a pascolo, fiduciosi che il regime fascista non avrebbe fatto mancare loro la manodopera reclutata ovunque ce ne fosse in abbondanza. La piazza di Modica divenne un grande serbatoio di bravi mietitori che non si preoccupavano di prendere il treno in direzione di Caltanissetta, Marianopoli, Vallelunga, Roccapalumba… per esser smistati nei latifondi dove c’era tanto grano da falciare.
Ritornati in paese, molti contadini non ci pensavano due volte ad attaccare il carretto al mulo o all’asino per avviarsi con le rispettive famiglie nelle contrade dove erano stati a lavorare. Nei primi anni di queste penose migrazioni – che nel dopoguerra avrebbero interessato più di cinquemila persone – i proprietari non consentivano che quei nomadi entrassero nei campi, adducendo a motivo del loro diniego il fatto che le spighe cadute tra le stoppie erano destinate all’alimentazione delle pecore e dei porci. Poi si raggiunse un tacito accordo: gli uomini delle carovane avrebbero aiutato i padroni a trasportare i covoni nell’aia; le donne e i bambini avrebbero potuto spigolare, ma non prima che il campiere avesse dato l’autorizzazione, cosa che avveniva soltanto dopo che tutti i covoni erano stati portati nell’aia.
Quando le donne e i bambini spigolavano, gli uomini accettavano volentieri di coadiuvare nelle operazioni di trebbiatura, anche perché ricevevano in cambio qualche tumolo di frumento. I vecchi restavano nell’accampamento a preparare da mangiare, approvvigionare la comunità di acqua, accudire ai neonati e alle galline, confezionare ceste, panieri, scope. Qualcuno si occupava di stagnare le pentole o di riparare i rustici calzari che nove volte su dieci erano zoccoli di legno o “cioce” realizzate con resti di vecchi copertoni di automobili.
All’interno del gruppo si riproduceva la solidarietà di vicinato. Gli ospiti delle tende vicine si scambiavano favori e cortesie. Naturalmente ogni famiglia preferiva montare la tenda vicino a quella dei parenti più stretti o magari del compare e della comare. Per accendere il fuoco facevano uso di stoppie e di escrementi essiccati di bovini. Quando non avevano pasta, cucinavano fave, minestra di grano detta cuccia, oppure cuscusu, preparato strofinando il grano su una pietra. Ai bambini spesso somministravano una zuppa di pane raffermo, pani cottu. Le donne, le vere protagoniste della spigolatura, portavano tutte il grembiule, detto faulari, avevano un fazzoletto al collo che, all’occorrenza, fungeva da culla per i neonati, la cosiddetta naca a bbientu, dietro le spalle, legato con una cordicella, tenevano un sacco dove mettevano le spighe.
Non era raro il caso di donne che partorissero sotto la tenda, con l’assistenza di una improvvisata mammana. Si conserva fra l’altro la memoria di taluni episodi particolarmente raccapriccianti, come quello di una giovane mamma che, mentre dormiva sotto la tenda, si trovò attaccata al seno una biscia; sfinita com’era dalla fatica, quella sventurata l’aveva accarezzata amorevolmente, convinta di allattare il figlioletto partorito pochi giorni prima. Ancora: una giovane spigolatrice, che adesso vive in America, fu circuita da un campiere in odore di mafia con una finta promessa di matrimonio sotto la quale si nascondeva la reale intenzione di avviarla alla prostituzione. Una canto popolare la ricorda così:
Muricanedda fusti sincera
pi nun sapiri u munnu com ‘era.
Ora ca ‘u sai tu cianci tu,
ca a Calidduzzu nun lu viri cciù.

(Modicanella fosti sincera / per non sapere il mondo com’era. / Ora che lo sai te lo piangi tu, / che Calidduzzu non lo vedi più).

Ma non erano solo le donne a pagare un prezzo fin troppo alto alla ricerca della mancia. Più di un uomo ci rimise la pelle, vittima di una insolazione o di altre cause accidentali. Tanti vecchi si congedarono dal mondo per morte naturale, mentre i familiari si contendevano con le formiche le spighe sfuggite alla falce del mietitore. E ancora vivo il ricordo della tragica fine di un neonato volato anzitempo in cielo a causa per le ustioni riportate mentre dormiva nella coffa, (contenitore di palma nana solitamente usato per somministrare la biada agli equini) che gli faceva da culla, andata in fiamme insieme alla tenda che l’ospitava. A stento riuscì a salvarsi il fratellino che l’accudiva.
Nonostante tutto questi inconvenienti, gli spigolatori non si arrendevano. Raccoglievano spighe, le battevano nottetempo e spedivano il grano con il treno a Modica, mai stanchi di sognare una società più giusta e umana. Nel lungo viaggio di ritorno – che durava otto giorni – mentre le donne e i bambini sonnecchiavano sui carretti, gli uomini si producevano in corali canzoni del lavoro, alternate da malinconiche nenie con una cantilena alla carrettiera, esprimendo così le amarezze del quotidiano, le aspirazioni più intime, il desiderio della donna amata.
Sutta lu faulari aviti lu meli, / carusu sugnu e lu voggiu tastari.
(Sotto il grembiule avete il miele, / sono ragazzo e lo voglio gustare).
Tuttavia, al di là di ogni allusione erotica, gli spigolatori avevano un sacro rispetto per le donne che insieme a loro si adattavano per quaranta giorni a una vita di forzata promiscuità. È appena il caso di aggiungere che la Federbraccianti-Cgil di Modica fu diretta per molti anni da un giovane della frazione di Frigintini che aveva fatto diverse campagne di spigolatura nei latifondi della Sicilia occidentale: Carmelo Viola. Grazie anche a lui, la Camera del lavoro di Modica riuscì ad imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica generale per il suo alto livello di consapevolezza sociale, civile e democratica. Le strategie di sopravvivenza e l’insieme dei valori di questi nomadi d’ambo i sessi offrono tuttora lo spunto per prendere le distanze dall’imperante edonismo di massa e dalla cultura dello spreco. Costituiscono un prezioso patrimonio cui attingere anche nel terzo millennio e, in ogni caso, un esempio da additare ai giovani.

di Pippo Oddo

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