Sulle elezioni e l’impegno politico

Deliri seriali di Domenico Passantino

Raffaello-Sanzio-da-Urbino-Scuola-di-Atene

In questi giorni si cominciano a profilare davanti agli occhi di tutti, nel paese di provincia in cui vivo, i primi sintomi, come colpi di tosse camuffati durante l’omelia in Chiesa per non dare troppo nell’occhio, anzi nell’orecchio, si cominciano ad intravvedere, dicevo, alcuni raggruppamenti, delle riunioni, dei consulti  e dei senato-consulti di persone che hanno a cuore la cosa pubblica-indignati, oh sí, molto indignati- e che cominciano a pensare, come succede in ogni società democratica che si rispetti, alle prossime elezioni comunali.

Ora, premettendo che il dialogo civile tra persone che hanno un obbiettivo comune è sempre-quantomeno a dire dei filosofi e antropologi o, più in generale degli esperti di scienze sociali-qualcosa di estremamente costruttivo e addirittura creativo, se è vero che è dal polemos, dalla “guerra” degli opposti che la realtà trae fondamemto e se è vero che Socrate e con lui Platone usano il dialogo per fare partorire conoscenza (la maieutica alla lettera è proprio un partorire) ; premesso dunque che sono favorevole a qualsiasi forma di dialogo inteso anche come guerra di opinioni, il problema e l’oggetto di questa riflessione, la quale, dalla realtà piccola di paese di provincia si applica, crescendo progressivamente come una fissione nucleare, alla società tutta, è:

Qual è l’obbiettivo comune di quanti si apprestano a candidarsi per le elezionipolitiche?

Senza avere la pretesa di rispondere ad una domanda che sembra essere retorica e che ha già la risposta insita in sé stessa, voglio analizzare tre parole, dalla cui analisi il lettore potrà rispondere al quesito o forse se lo porrà veramente, ad un livello del suo essere più profondo.

Procediamo dunque a ritroso, da destra verso sinistra, alla maniera araba che tanto ci incute timore:

Politica è parola che tutti conosciamo: aggettivo che deriva dalla parola grecapolis, citta-stato, quindi traducibile attinente alla polis, e che sottintende il sostantivo techné, che possiamo tradurre con arte, tecnica: quindi politica è una tecnica  che riguarda la città, intesa come istituzione. La techné, la tecnica, l’arte, il saper fare sono parole che Platone-guarda caso il filosofo che considera  Stato ideale quello governato dai sapienti- nel suo scritto Apologia di Socrate analizza con molta attenzione: egli, dopo aver dialogato  con molte persone, arriva alla conclusione che solo gli artigiani sono consapevoli di quello che fanno e sanno fare bene, limitatamente al loro campo di esperienza. Sempre Platone nel Fedro racconta il mito dell’auriga: la società è vista come un carro e funziona come un organismo vivente: così come a guidare le passioni dell’uomo, ossia i cavalli della biga  (il bianco l’anima irascibile e quindi le forze armate, quello nero l’anima concupiscibile e quindi gli artigiani e i commercianti) deve essere la ragione, allo stesso modo aguidare lo Stato devono essere i sapienti.

Chi sono questi sapienti? Sono coloro che sanno, che possiedono un metodo,una tecnica, un’arte, ma che conoscono principalmente i loro limiti.

 Candidato è parola che deriva dal verbo latino candidare, che vuol dire vestire qualcuno, che aspira ad una carica dello Stato, con la toga candida, cioè bianca, senza macchia. Il candore è simbolo, è chiaro, dalle purezza, per come si è agito nella vita passata (il famigerato curriculum) e per come si agirà in futuro, nella realizzazione dell’obbiettivo che ogni candidato si pone. E qui ci riallacciamo alla terza parola in analisi:

Obbiettivo deriva da obicere, che vuol dire mettere di fronte, quindi è ciò che ci poniamo davanti,  che ci proponiamo di fare. Qual è dunque l’obbiettivo dei candidati?

Si potrebbe rispondere, come sempre, il bene comune, la buona amministrazione della res publica ecc. ecc.ma anche arrivismo, sete di potere, orpelli, ecc.ecc.

Non sono così bigotto da dire che l’arrivismo sia una cosa deprecabile ed esecrabile sempre, anzi penso che il non-arrivismo sia la condizione privilegiata di chi (mi si perdoni il gioco di parole) è stato privo di privazioni. Lo si potrebbe chiamare piuttosto riscatto sociale e allora acquisterebbe tutt’altra valenza e tutt’altro valore, perché governare non è un acquisire privilegio, una posizione di potere, ma, semmai, è il riconoscimento, da parte della comunità, del reale e vero candore e della reale e vera consapevolezza di quello che si fa e che si sa e che si sa fare;  riscatto sociale, tuttavia, che non deve avvenire forzando gli eventi, camuffando le carte, simulando e dissimulando; deve essere frutto del sacrificio e dell’impegno costante, e ivotanti sono portati a votare chi reputano più idoneo al compito che si vuole assumere ogni candidato.(È interessante notare che voto deriva dal lat.votus,che originariamente non vuol dire preferenza, come se si dovesse premiare qualcuno facendogli vincere le elezioni, ma vuol promessa, impegno –pensiamo a parole a noi care come per esempio devoto nella religione ecc.). Votare vuol dire rendere votatus, cioè impegnato qualcuno che si è candidato (non essendo un delinquente) ad assumersi la responsabilità e il peso di impegnarsi per la comunità attraverso le istituzioni. Nell’uso il verbo votare è diventato intransitivo e ha perso poi l’originaria accezione. Vincere le elezioni dovrebbe essere, quindi, un modo di dire da cancellare, perché cambia la percezione della realtà della cose.

A tal proposito riporto un brano di Sallustio, uno storico romano del I sec. a.C.:

“L’ambizione (meglio: la sete di potere) ha costretto molti uomini a diventare falsi, ad avere una cosa chiusa nel petto e un’altra pronta nella lingua, a considerare le amicizie e le inimicizie non in base alla realtà, ma in base alla comodità, ad avere buono il volto piuttosto che l’animo.”(Traduzione mia)

 De coniuratione Catilina, x: Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re sed ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere.

 

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