Santo Meli e la coscienza sporca dei galantuomini

di Pippo Oddo

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Nei centocinquantuno anni che ci separano dalla sua fucilazione (1° ottobre 1860), su Santo Meli si è scritto di tutto, di più. Qualche storico, e non certo dei più sprovveduti, è arrivato ad affermare che nientedimeno subito dopo l’unità d’Italia l’ardimentoso giovane fu uno dei tanti noti guerriglieri che «si aggregarono in associazioni mafiose». Molti altri hanno accreditato la vulgata di certa borghesia contemporanea (appena salita sul carro del vincitore), che lo dipingeva come capo di «una squadra di malfattori» e addirittura «apostata infame», che il 17 aprile 1860 sui monti di Carini avrebbe disertato «le bandiere della libertà, per abbandonarsi a tutta sorta di furti e di assassinii». Ma chi era in realtà Santo Meli? 

Ne ha tratteggiato efficacemente l’immagine più di uno scrittore dell’epoca. Alessandro Dumas, che il 25 giugno 1860 fu involontario testimone della sua cattura nei pressi del Baglio di Villafrati (dove sostava la divisione garibaldina comandata dell’ungherese Stefano Türr), riferisce che Santo Meli era «un uomo dai venticinque ai ventotto anni, biondo, ben tagliato nella statura mediana […]. Aveva pantaloni ampi e stivali ripiegati sotto il ginocchio, simili alle uose dei nostri vecchi gentiluomini di campagna […]. Santo Meli è del villaggio di Ciminna, a qualche miglio soltanto di Villafrati. Nel villaggio è molto temuto e molto ammirato; le nature forti, e sia pure di una forza rivolta al male, conquistano sempre una popolarità di massa; prova, la popolarità di Nerone nell’antica Roma, quella di Mandrino in Francia, quella di Fra’ Diavolo in Sicilia. Il suo arresto ha prodotto grande emozione in paese». Nella medesima circostanza, allorché il generale Türr pronunziò «corrucciato» il nome dello spericolato popolano, Giuseppe Cesare Abba si affrettò ad annotare nel proprio taccuino: «Santo Mele? […], ma costui è quel birbante che avevamo prigioniero al Passo di Renna, e che gli riuscì fuggire. Berrebbe il sangue, ladro, assassino!». Cinquantaquattro anni dopo, nella sua Storia dei Mille narrata ai giovinetti, Abba aggiungeva: «Forse la Maffia potentissima gli aveva dato aiuto fino in quell’accampamento».

Vale allora la pena d’interrogarsi per quale misterioso capriccio del destino sullo sfortunato ragazzo (già venditore ambulante di ricotta e farina) si siano addensate tante ombre da scoraggiare qualsiasi serio tentativo di riabilitarne la memoria, nello più scrupoloso rispetto della verità storica. In questo sforzo ci sorregge la documentazione d’archivio, che abbiamo avuto la fortuna di consultare sulla Ciminna risorgimentale, di cui (come sappiamo anche da fonti edite di tutta affidabilità) fu tanta parte la famiglia di Santo Meli. Lui stesso, il gusto per la rivoluzione e la sete di giustizia sociale aveva cominciato ad apprezzarli assieme al latte materno, se non li aveva ricevuti in eredità da un Santo Meli che nel lontano 1647 era stato uno dei capi della rivolta per il pane a Ciminna. «Il di lui padre Domenico – assicura Vito Graziano –, i fratelli Nicolò e Vito e gli zii Ferrara Vito e Giuseppe fu Santo presero parte ai moti del 1848, i fratelli Filippo e Giuseppe e lo zio Ferrara Nicolò furono arrestati per motivi politici nel 1856. Alcuni di essi, cioè Meli Vito e Ferrara Giuseppe ottennero la pensione». Il Nostro, seguace del mazziniano Luigi La Porta, fu talmente coinvolto nell’insurrezione organizzata nel novembre 1856 da Francesco Bentivegna da calamitarsi addosso una pretestuosa e infamante denunzia per violenza privata e stupro ai danni della moglie di un agente borbonico. Dopo una lunga latitanza, il 24 novembre 1858 fu processato e rimesso «in libertà assoluta» dallo stesso Consiglio di Guerra che condannò a morte Francesco Bentivegna, Salvatore Spinuzza ed altri trenta patrioti (tra i quali uno zio di Santo Meli e il bisnonno di chi scrive), che ebbero poi commutata dal re la pena a diciotto anni di ferri da scontare, con una grossa palla di piombo attaccata alla caviglia, nel bagno penale di Favignana.

È appena il caso di aggiungere che i fatti del 1856 dovettero lasciare il segno nella mente di Santo Meli, intanto perché a Ciminna la partecipazione popolare alla rivolta assunse dimensioni che forse neanche Bentivegna e La Porta avevano osato sperare. Gli insorti dei paesi vicini furono accolti da «tutti l’emarginati» – si legge in un pubblico rapporto dell’epoca –, «e tutti ebbero parte nella rivoluzione del 23 novembre e furono costituiti in comitato che la dimane giorno 24 dovevano prendere le redini del Governo di Ciminna». Davvero straordinario fu l’apporto delle donne: «Crocifissa Meli e Maria  Priolo eccitarono […] la plebe a sollevarsi, ma la Meli si compromise più gravemente essendosi, di cointelligenza ai sediziosi, recata fuori paese ad invitare la banda ad entrare, animando i componenti della stessa a non temere e incoraggiando i paesani a riceverli». Uno dei capi appena arrivati, don Cocò Di Marco di Mezzojuso, arringò il popolo e, in nome di Bentivegna, abolì fra scroscianti applausi il dazio sul macinato, l’imposta fondiaria e tutte le tasse comunali. Un suo compaesano, don Davide Figlia, requisì gli incassi del ricevitore del Registro, del lotto e del macinato, rilasciando regolare ricevuta, a firma sua e di Francesco Bentivegna. Ma, una volta fallita la rivolta, la repressione borbonica fu feroce: «Si mettevano sossopra le case, si catturavano le madri e le sorelle dei fuggiaschi, s’intimidivano i buoni, si corrompevano i tristi, s’invilivano i perplessi, spargevasi ovunque lo spavento e il terrore».

Si fece per conseguenza implacabile l’odio di Santo Meli verso i borbonici, che peraltro a Ciminna coincidevano con i galantuomini che avevano usurpato diverse centinaia di ettari di terra comunale, rivendicate invano da una delibera dal decurianato (consiglio comunale) dell’estate 1842 e soprattutto dai «comunisti», vale a dire dalla povera gente che ne era beneficiaria. Anche per questo, non molte ore dopo lo scoppio della rivolta della Gancia (4 aprile 1860) il tricolore sventolava su un alto colle che domina Ciminna. Appena evaso dal carcere di Ventimiglia (dove era stato rinchiuso per motivi politici),  Santo Meli passeggiava armato nel centro del paese nativo, e faceva sapere al giudice regio che «il fucile di cui faceva uso si apparteneva a suo zio, il servo di pena don Giuseppe Ferrara», ancora con la palla di piombo al piede nella famigerata Fossa di Favignana. Il 7 aprile (sabato santo), ad onta di un grosso schieramento di guardie urbane e campieri armati, si profilò a Ciminna, alla testa degli insorti di Ventimiglia, Luigi La Porta, il solo capo autorevole della rivolta del 1856 sfuggito alla condanna a morte, restando quasi sepolto vivo «in una cisterna tenuta a secco». E dopo essersi recato a «baciare la destra» all’anziana madre, non indugiò a far piantare il tricolore sul balcone del capo urbano e portavoce degli agrari, don Pietro Alomia, per arringare da lì la povera gente. La mossa successiva fu la requisizione di tutto il denaro depositato nelle casse del ricevitore della tassa sul macinato (23 onze) e di quello del registro (3 onze). Subito dopo aprì una sottoscrizione tra gli stessi galantuomini «ma nessuno gli rispondeva».

Il giorno successivo, consacrato alla resurrezione di Nostro Signore, mentre Luigi La Porta, Santo Meli e altri popolani raccoglievano «uomini a stipendio e fucili ad un dipresso inutili», alcuni proprietari, tra i quali il sotto capo urbano, don Salvatore Saso, riferivano allarmati al giudice regio di non poter fronteggiare una guerriglia di Mezzojuso che voleva invadere il paese per unirsi agli insorti di Ventimiglia e Ciminna. Questi chiese ed ottenne da La Porta che tutti gli armati andassero via al più presto possibile e che, nelle more, la squadra di Mezzojuso stesse «serrata nel chiosco del Convento di San Francesco». La contropartita dei rivoltosi fu che il tricolore continuasse a garrire anche in loro assenza. «Così poche ore dopo» – si giustificheranno i borbonici – gli uomini armati «se ne partivano per la volta di Baucina, seguiti sin fuori l’abitato dall’imponenza della Guardia Urbana e dei proprietari». Resta il fatto che fino all’alba del 13 aprile il tricolore non cessò di sventolare su Ciminna senza che nessuno osasse ammainarlo. E si noti che, prima di lasciare il territorio comunale, La Porta aveva fatto il giro dei quattordici mulini idraulici per assicurarsi che non fosse più riscosso l’odioso dazio sul macinato. Poi corse a Baucina, a Villafrati ed Ogliastro per reclutare altri volontari. Da qui, alla testa di 400 insorti, si diresse a Misilmeri dove stavano confluendo anche le guerriglie di Corleone, Piana dei Greci e Belmonte Mezzagno, guidate rispettivamente dal marchesino Firmaturi, da Pietro Piediscalzi e dai fratelli Gurrera.

Ma se a Ciminna la bandiera fu tolta il 13 aprile dal sottocapo urbano don Salvatore Saso, nell’Agrigentino e in altri comuni del Palermitano (Sciara, Caccamo, Villafrati e Caltavuturo), ancora verso la fine del mese, «il dazio pel Macino» non era stato «perfettamente ripristinato». In parecchi altri centri agricoli dell’Isola, l’opposizione all’infame balzello sul pane restava «molto esaltata». Frattanto Luigi La Porta aveva conosciuto nuovi momenti di gloria e cocenti sconfitte. Il 10 aprile le squadre occorse a Misilmeri lo avevano acclamato «Presidente del Comitato Generale d’insurrezione». La stessa sera La Porta inviava un appello ai liberali invitandoli a costituire governi provvisori in tutti i comuni. L’indomani, dal suo Quartier Generale a Gibilrossa, celandosi dietro l’improbabile nome di principe di San Giuseppe, l’irriducibile rivoluzionario diramava una circolare ai comuni per informarli che le squadre insorte si prefiggevano di «liberare il popolo dall’oppressione morale e materiale, per riunirsi alla nazionalità Italiana, sotto la bandiera di Vittorio Emanuele». Auspicava perciò che «tutti i buoni fratelli e concittadini» concorressero «alla nostra santa causa con quei mezzi e sforzi che possono, cioè uomini, denaro e munizioni».

Ancora prima che finisse l’11 aprile, i picciotti insorti (in nome della Talia perché allucinati dal miraggio della terra) avevano sostenuto i primi scontri con l’esercito borbonico, che li costrinse ad abbandonare il campo di Gibilrossa. Le guerriglie «ripararono sui monti – racconta lo storico di Ciminna – e ingrossate sempre da altre squadre percorsero poi i comuni di Contessa, Piana dei Greci, San Giuseppe, Partinico e Montelepre, ove gli armati sommavano a 1200. Ma poco dopo, per false notizie sparse in mezzo alle squadre, queste disertarono restando appena 400 armati, fra i quali quasi tutti gli uomini di La Porta. Essi la sera del 17 aprile marciarono verso Carini, ove il giorno 18, circondati da tre colonne di regi, comandate dal generale Cataldo e dai colonnelli Torrebruna e Perrone, combattevano valorosamente contro di esse per ben sei ore, finché sopraffatti dal numero si riunirono e, rompendo il cordone, ripararono sui monti. La Porta si nascose in Corleone e le squadre ritornarono ai loro focolari […]. Ritornato da Carini Santo Meli se ne stette nelle campagne vicine a Ciminna [forse nelle cosiddette Manche di Caccamo dove lavoravano diversi villici ciminnesi], organizzando con intendimenti forse patriottici una squadra di cui si fece capo».

Infatti, da un rapporto del regio giudice di Caccamo sappiamo il 25 aprile quelle contrade furono teatro di una inedita scorribanda di ventisei contadini guidati da Santo Meli che, al grido di Viva la libertà, andarono ad occupare con il tricolore le terre pubbliche dell’ex feudo Pitirrana (contrada Giacomello), affittate a dei gabelloti ben introdotti negli ambienti del potere municipale caccamese. Ad un certo momento, i rivoltosi piantarono la bandiera su un alto poggio e cominciarono a sparare sulle «case coloniche de’ fratelli Minnoja, don Nicasio Ricci Bracalisi, e Lorenzo Guzzardo, e poiché incontrarono resistenza da parte degli asilati, dopo un’ora di vivo fuoco si misero a cumular legna per incendiare quelle case. Al numero ed al timore cedendo gli aggrediti si rendeano e veniano disarmati». Subito dopo «la banda allontanatavasi per la volta di San Pietro Pitirrana, non senza invitare tutti a seguirli col premio di quattro tarì al giorno», lo stesso soldo che avevano ricevuto nel ’56 gli insorti che accolsero l’invito di Francesco Bentivegna e, in tempi assai più vicini, quelli reclutati da Luigi La Porta. Va da sé che i dimostranti erano animati anche da motivazioni patriottiche, che nella loro grande ingenuità immaginavano atte a rispondere ai bisogni veri dei contadini di Caccamo e di Ciminna, aspiranti all’assegnazione di quelle terre comunali ai sensi di una legge del 1838 e della circolare applicativa del 1841. Non è inoltre da escludere che queipicciotti agissero di concerto con Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, se è vero che da alcuni giorni questi setacciavano la provincia di Palermo nel tentativo di ridestare la rivoluzione.

Comunque sia, una volta regolati i conti con i gabelloti della vicina Caccamo, per dar sfogo alla voglia di vendetta sui galantuomini del suo paese, che due settimane prima avevano fatto a pezzi il tricolore, la sera del 28 aprile Santo Meli entrò a Ciminna a capo di una numerosa comitiva armata. «Primieramente assalì la casa del capo urbano, don Pietro Alomia, messo già in salvo con tutta la famiglia, e dopo averla saccheggiata, l’incendiò». Immediatamente dopo, accresciuta di nuovi rivoltosi, la squadra «appiccò il fuoco al Giudicato, distruggendo tutte le carte ivi esistenti; e ciò fatto si diresse alla casa del sottocapo degli urbani don Salvatore Saso, ch’era a poca distanza. Ivi giunta, chiese che le fosse consegnata la guardia urbana Antonino Gulotta, che aveva minacciato di arresto parecchi individui ed ivi si era nascosta. Ma appena esso comparve sulla porta per uscire, fu fatto segno a vari colpi di fucile, che lo resero all’istante cadavere. Ciò fatto, portossi verso tre ore di notte alla casa di un certo Calogero Caltabellotta, e chiamatolo fuori l’uccise insieme al cugino di costui Antonino Caltabellotta, che disgraziatamente trovavasi in quella casa».

Sul far dell’alba del giorno dopo, i guerriglieri avevano alle calcagna un’imponente colonna mobile dell’esercito, equipaggiata di tutto punto, guidata dalla più alta autorità militare della Real Piazza di Palermo e supportata dalla compagnia d’arme di un ex brigante, il capitano Giorgio Chinnici. Ma quando i regi giunsero alle porte di Ciminna, gli insorti «coll’infame bandiera rivoluzionaria» avevano occupato le alture circostanti. Dentro il paese «solo sette, o otto cittadini» andarono incontro alla colonna mobile, cui si unirono, in piazza, il sindaco e il giudice. Vennero mobilitate anche le Guardie urbane di Baucina e Ventimiglia per sguinzagliarle, assieme ai militari, contro i rivoltosi, che nel frattempo erano aumentati di numero per l’arrivo diversi altri volontari dei paesi vicini. Il risultato fu che tutto quello spiegamento di forza pubblica riuscì a catturare a stento un certo Antonio Catalano (trovato in possesso di uno stilo), Francesco Caeti (già implicato rivolta di Bentivegna) e un villico, cui fu «pure arrestato un barile di vino», destinato agli insorti.

Una ottantina di guerriglieri guidati da Santo Meli si guadagnò la vetta del monte Cane; altri andarono a suscitare la rivolta nei paesi vicini. Il giorno dopo, lunedì 30 aprile, era in fiamme il mulino Fiaccati della ricevitoria di Alia, in territorio di Roccapalumba (dove portavano a macinare il grano anche i contadini dei paesi vicini): «una folla di persone, con ischioppi voglion gratis il macinamento», rapporteranno ai superiori le autorità locali. «Gli insorti – ammetteranno di malavoglia le massime gerarchie borboniche – continuano la loro tattica diguerriglias; spariscono e ricompariscono per stancare le reali truppe, senza aver potuto però mai impadronirsi d’una città importante. Trapani, che pareva caduta in potere de’ turbolenti […], è stata occupata dalla colonna del generale Letizia. Altronde, a malgrado del poco successo della insurrezione, questa resiste ancora senza disanimarsi e si giova d’ogni sbaglio e d’ogni trascurataggine delle autorità governative». A resistere erano, però, oramai quasi esclusivamente i picciotti di Santo Meli. I liberali borghesi (alcuni dei quali già il 20 aprile sapevano della presenza nell’Isola di Pilo e Corrao) non osavano ancora uscire allo scoperto. In attesa dell’arrivo di Garibaldi, saranno appunto i guerriglieri di Santo Meli a tentare di snidarli dalle loro agiate dimore con una determinazione ben più rude e sbrigativa di quella mostrata nel ’56 da  Bentivegna e ultimamente da  La Porta.

Per farla breve, tra la fine d’aprile e il 13 maggio «la detta squadra (circa 200 individui) – sono ancora parole di Vito Graziano – si diede a percorrere i comuni di Regargioffolo, Roccapalumba, Baucina, Ventimiglia, Santa Cristina, Corleone, Camporeale e Santa Margherita, eccitandoli alla rivolta e commettendo qualche delitto. Perciò la detta squadra fu severamente giudicata dall’opinione pubblica, ma non si debbono tacere i servizi da essa resi alla causa della libertà. Infatti essa nel Distretto di Corleone tenne vivo il sentimento rivoluzionario, che in quel periodo era stato soffocato dalla reazione». Ma non per questo, a Giuliana Santo Meli potè evitare di essere scambiato per un bandito. A Santa Margherita il 13 maggio i galantuomini gli spararono addosso, ferendolo ad un ginocchio nel momento stesso che stava per requisire la cassa comunale. Imprigionato insieme con tre suoi fratelli ed altri picciotti, dopo la battaglia di Calatafimi, l’invitto rivoluzionario fu portato a Passo di Renna e consegnato all’aiutante di campo di Garibaldi, Stefano Türr, che per sua stessa ammissione non lo fucilò perché costretto a «marciare su Parco senza perdere un minuto». Santo fu perciò affidato agli uomini del barone Sant’Anna, che aveva avuto modo di conoscere sui monti ad ovest di Palermo. Il resto ci è noto: non si sa come, ma Santo Meli tornò presto libero; il 25 giugno fu catturato a Villafrati dai garibaldini della divisione Türr.

Ma che ci faceva a Villafrati? Sappiamo che stava andando a Palermo, e che gli tenevano compagnia altri sei cavalieri armati di fucili e di pistole: «l’ultimo cavallo ne aveva due in groppa». Assieme a loro viaggiava «una dozzina di galline che si dibattevano attaccate all’arcione della sella d’uno dei cavalieri»: parola di Dumas. Non è quindi azzardato pensare che quei polli potessero essere destinati a Luigi La Porta (che era divenuto uno degli uomini più ascoltati da Garibaldi). Non a caso quel giorno Santo Meli aveva con sé una serie di documenti ufficiali che attestavano il suo impegno patriottico. È altrettanto verosimile che all’antivigilia della cattura, vale a dire il 23 giugno 1860, Santo possa aver partecipato (insieme allo zio Giuseppe liberato dalla Fossa di Favignana, agli altri veterani del ’48 e del ’56 e allo stesso La Porta) alle esequie solenni che il governo della dittatura aveva voluto tributare a Corleone ai resti di Francesco Bentivegna, fino ad allora custoditi in una cassa riciclata, nascosta da un frate nel sotterraneo di una chiesetta di Mezzojuso.

Certo è che nulla di tutto questo valse a risparmiare allo spericolato figlio di Ciminna l’umiliazione di un processo davanti al Consiglio di guerra, allestito in modo subitaneo nella stessa Villafrati. Il 26 mattina, prima che cominciasse ad operare la Corte marziale, era già dentro il Baglio, accompagnata da molti compaesani, la vedova Ninfa Ferrara, madre di Santo Meli, «una vecchia contadina dai capelli grigiastri, dal colorito pallido, l’occhio celeste chiaro, l’espressione intelligente». E riuscì a farsi ricevere da Alessandro Dumas. Era animata dalla chimerica speranza di chiarire la posizione di suo figlio. Ma fu già tanto se l’illustre scrittore le consigliò di avvalersi dei servizi di un avvocato venuto da Palermo assieme ai garibaldini. Durante il processo furono molti i testi che deposero a favore dell’imputato e non se ne trovò uno solo che gli movesse una pur lieve accusa. «Il testimonio che abbia detto più male di Santo Mele – riferisce uno dei Mille – fu Santo Mele. “Io brigante! Eccellenza! Ho combattuto contro i borbonici, ho dato fuoco alle case dei realisti, ho ammazzato birri e spie, dai primi di aprile servo la rivoluzione: ecco le mie carte!” E ne buttò un fascio, bollate dai municipi dov’era passato che ne dicevano gloria come fosse Garibaldi».

Da Alessandro Dumas sappiamo che l’imputato tenne anche a precisare che «se ha rubato cassaforti e incendiato villaggi, lo ha fatto in base ai proclami del Comitato rivoluzionario di Palermo; se ha posto taglie sui villaggi, è perché, in primo luogo, i villaggi erano dalla parte del re, e, in secondo luogo, perché per impedire che i suoi uomini lo abbandonassero aveva dovuto pagar loro il soldo e vettovagliarli; ora, il soldo era di quattro tarì al giorno (un franco e ottanta centesimi), il rancio di due tarì (novanta centesimi di franco). Aveva avuto con sé fino a tre o quattrocento uomini; era dunque una media da mille a milleduecento franchi al giorno che aveva dovuto procurare con tutti i mezzi possibili. Quanto alle case bruciate, erano di quelle dalle cui finestre avevano sparato sugli uomini e l’incendio era solo una rappresaglia. Domanda che si pesino in modo giusto i servigi da lui resi all’insurrezione, restandosene in armi, e il male che aveva dovuto fare per mantenervisi, e che il giudizio sia imparziale […]. Il consiglio di guerra […] dopo tre giorni di discussione ha ritenuto di non aver sufficienti ragguagli sul caso di Santo Meli. Il prigioniero viene mandato a Palermo dove sarà aperta una nuova inchiesta».

Nel tardo pomeriggio del 27 giugno Santo Meli e i suoi compagni erano già in marcia verso la capitale, «scortati da una quindicina di uomini, con avanguardia e retroguardia». Subito dopo anche Türr dovette rientrare a Palermo per curarsi i postumi di una brutta ferita, che gli si era riacutizzata durante la marcia. Viceversa la spedizione garibaldina mosse alla volta di Caltanissetta, sotto il comando del  colonnello (ungherese come il predecessore) Ferdinando Eber. Il quale, a proposito del processo a Santo Meli, il 29 giugno 1860 si sentì in dovere di scrivere da Alia al Times (di cui era ancora stimato corrispondente di guerra): «Non vi è dubbio che le antiche squadriglie hanno avuto in passato e forse hanno anche oggi l’abitudine di vivere alle spalle degli altri; per essere giusti però bisogna dire che è a loro che si deve se la rivoluzione fu tanto viva e non a quelli che ora non fanno altro che lamentarsi. Mentre questi rimangono comodamente a casa o tutto al più si sfogano in dimostrazioni, gli altri hanno combattuto in guerriglia».

L’apertura dell’inchiesta a carico di Santo Meli fu rinviata, anche perché il 27 giugno Luigi La Porta, l’uomo d’azione che molti anni prima l’aveva iniziato all’utopia della libertà, prendeva in mano le redini del ministero dell’Interna Sicurezza, già guidato da Francesco Crispi. Ma dopo il 18 luglio, quando La Porta lasciò il governo della dittatura per passare al servizio militare (che gli avrebbe regalato ulteriore gloria fino alla battaglia del Volturno), i nuovi tenutari di potere nei distretti di Termini e di Corleone non si fecero più scrupolo di cercare ogni possibile prova a carico «dell’infame Santo Meli di Ciminna». Il questore di Termini, in particolare, arrivò a chiedere al delegato di Roccapalumba d’inviare al Consiglio di Guerra, che si sarebbe riunito presto a Palermo, «almeno duecento testimoni», da reclutare tra il centro cittadino e la borgata di Regargioffoli. E, dopo aver fornito un lungo elenco di uomini e donne da contattare, gli comunicava che «per questo processo ne nasceva un bello sviluppo, niente meno che l’ex Ministro La Porta era l’autore di tanti assassinii, ed il Meli non era che un sottocapo di quella masnada», rotta ad ogni sorta di eccesso: «donne violate e indi bruciate, furti, stupri, e cose non detti [sic] in nessuna storia». A Marineo, dove si costruirono a tavolino le principali accuse contro Santo Meli, a voler prendere per oro colato le memorie autobiografiche di Antonino Salerno (pubblicate di recente da Ciro Spataro), si arrivò a far credere che la commissione militare fosse presieduta da «un tale di D. Antonino Mordini, che poi nell’assenza di Garibaldi dalla Sicilia, fu fatto prodittatore della stessa», e che, per pronunziarsi, quel signore avesse voluto girare i paesi e le masserie «ad oggetto di andare raccogliendo tutte le prove dei misfatti» degli uomini di Santo Meli e della «banda di malfattori comandata da un tale Spinuzza di Cifalù». Perciò «verificavasi alla fine che ambedue furono fucilati».

Ora, al di là di questa ed altre frottole, raccontate disinvoltamente nei centocinquanta anni di storia unitaria, il solo dato certo è che alla riunione del Consiglio di Guerra, che tenne alla chetichella a Palermo nella mattinata di domenica 30 settembre 1860 (quando era stata già fissata la data del plebiscito che avrebbe deciso l’annessione al regno costituzionale di Vittorio Emanuele II), non si presentò nessun testimone a carico di Santo Meli, né tanto meno qualcuno di Roccapalumba, o di Regargioffoli, dove la squadra si era anzi ingrandita di nuovi volontari. Dalla sentenza, emessa qualche ora dopo, sappiamo solamente che lo sfortunato eroe fu condannato a morte per un «furto accompagnato da omicidio in persona di don Antonino Arculeo consumato in Santa Cristina il 9 maggio 1860», e per «altri eccessi commessi nel distretto di Corleone con la sua banda armata». L’indomani, in pieno giorno, Santo Meli fu passato per le armi dal battaglione del corleonese Ferdinando Firmaturi, marchesino di Chiosi, che nell’aprile precedente era stato tra i primi a sciogliere la squadra già accampata sui monti nei pressi di Carini. Eliminando quel popolano insolente, che il 9 maggio aveva tentato di stanarlo dalla paura, il nobiluomo forse sperava di togliersi l’ultimo scheletro dall’armadio, prima di presentarsi all’appuntamento plebiscitario.

Ma faceva i conti senza l’oste, quel signorino. Dal fondo della sua prigione, cinque giorni dopo la fucilazione del Nostro, un suo seguace, Filippo Piazza di Ventimiglia, ricorderà al governatore del distretto di Termini d’aver partecipato alla rivolta di Bentivegna e di essersi perciò sciroppati sei anni di reclusione; d’aver combattuto agli ordini di La Porta a Misilmeri e a Carini; d’essere andato con Santo Meli a far sollevare i contadini di diversi paesi, per venire poi arrestato a Santa Margherita, perché reo d’avere incitato la popolazione a riprendere le armi contro il Borbone. Contemporaneamente metteranno nero su bianco anche Salvatore Bucaro, Giuseppe La Porta, Andrea La Spisa e i fratelli di Santo Meli: Filippo, Giuseppe e Michele. «Essi che influirono nella Santa Causa italiana – protesteranno –, in quel paese [Santa Margherita] vennero arrestati come malfattori, solo perché tentarono la rivolta e raccogliere uomini per indi piombare a difendere Palermo. Signore, sembra evidente come dopo cinque mesi di prigione, senza aver commesso reato alcuno, non si dovrà dalla giustizia Patria mettere tempo per ordinare la loro libertà». E non sapevano che, senza le loro spericolate scorribande, senza quegli ultimi focolai di rivolta nelle campagne, amplificati da Francesco Crispi, da Rosolino Pilo e da Giovanni Corrao, Garibaldi forse non si sarebbe mai deciso a sbarcare con i Mille a Marsala. Né avevano messo mai prima nel conto, quei sempliciotti di campagna, che, per tutelare meglio i loro interessi di classe, igalantuomini di casa nostra avrebbero rinnegato la bandiera bianca con i gigli dei Borboni, e reso onore al tricolore.

Giuseppe Oddo

Palermo 31 ottobre 2011

fonte Mimmo Pernice Blog  Cittadino in Pensione 

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