La sostanza dei poveri

la riflessione sabatina n. 18

rifless 18Quando si dice sostanza, i filosofi pensano a ciò che vi è di permanente nella realtà; i chimici si chiedono se sia solida, liquida o gassosa; i biologi se midollare, corticale, ecc. E imorti di fame in Sicilia recitano virtuosi: Ogni fìcateddu di musca fa sustanza (Ogni fegatino di mosca fa sostanza).
È proverbio, questo, oramai poco citato, grazie a Dio. Ma un tempo era continuamente sulla bocca di molti siciliani e dava la misura delle carenze nutrizionali della povera gente. I più miseri zappaterra, per esempio, si facevano vedere dal macellaio sì e no in occasione delle feste grandi. Negli altri periodi era gran ventura se potevano accompagnare il pane con qualche sarda salata. A tale proposito ho ancora nelle orecchie l’inconfondibile “abbanniata” di un venditore ambulante: sardi chi ciauru! Ma non sempre riusciva a venderne. E quando una madre di famiglia le comprava, li somministrava con grande parsimonia ai figli. Con la scusa che le sarde salate mettevano sete, i bambini potevano averne un trancio. Solo in particolari circostanze (che capitavano a ogni morte di papa) potevano ingozzarsi di cose sostanziose: “stigghiola” (budelli attorcigliati), trippa, cotenne, carni murtizza (di animale morto accidentalmente)…
Vero è che molti contadini poveri allevavano una capra o una pecora, mezza dozzina di galline, un gallo e qualche altro animale da cortile. Ma non ne mangiavano quasi mai la carne. Persino il latte e le uova venivano commercializzati, vuoi vendendoli direttamente ai galantuomini, vuoi barattandoli in cambio di petrolio, sarde salate, zucchero, aghi, filo, ditali, stoppa, ecc. Solo una modestissima parte di questo misero capitale circostante veniva auto-consumato, ma esclusivamente su prescrizione medica. Bisognava insomma che qualcuno della famiglia si ammalasse per aver diritto all’uovo o al latte. Un piatto di sustanza con patate, a dire il vero non sempre abbondante, spettava a tutti allorché si ammalava seriamente un animale: alla gallina ammartucata (in fin di vita) si tirava a malincuore il collo; la pecora paralitica o infetta veniva pietosamente sgozzata. E la carne naturalmente non si buttava, certi com’erano i contadini del passato che nessun veleno fosse così potente da resistere a una prolungata bollitura.
Alla donna incinta non si poteva però negare il privilegio di una pietanza sostanziosa… ove ne avesse fatta esplicita richiesta, se non altro per evitare che il bimbo venisse al mondo segnato dalla voglie materne. Subito dopo il parto, la puerpera aveva il diritto di mangiare una gallina bollita, riservandone però il collo al marito, per tema che il bimbo crescesse col collo molle e, comunque, a castigo di Dio. Ma certi lussi duravano solo il tempo di un giorno. Poi si ritornava all’alimentazione di sempre: pane, pasta, legumi, verdure spontanee e ogni tanto un pezzetto di formaggio. Lo stesso pane, ritenuto da tutti grazia di Dio, si soleva tagliare con moderazione perché non ce n’era mai a sufficienza. Ed era un grosso guaio per le famiglie con bambini particolarmente mangioni. Ma a questo inconveniente si poteva in qualche modo ovviare. «Quando i bambini sono troppo voraci – scriveva sulla seconda metà dell’Ottocento Raffaele Castelli – dopo essersi cotto il pane, prima di cavarlo dal forno, tolto da questo il lastrone, vi si avvicinano e ne si ritraggono tre volte dicendo: Empiti, lupo, per grazia di Diu. E bisogna sapere che in Sicilia la voracità è detta lupa».
Proprio così, lupa, come il noto parassita della fava, di quella benemerita pianticella cui era affidata la sopravvivenza di molte famiglie contadine, specialmente nel lungo mese di maggio, quando il pane era raro come i corvi bianchi, per non dire che in certe case non se ne vedeva neanche a cercarlo col lanternino. A dimostrazione di quanto fosse diffuso il consumo di fave verdi, nei secoli di fame nera, basti ricordare che nell’Ottocento a Villalba si registrò una strana epidemia detta zafara, i cui sintomi erano: «cefalea, ronzio delle orecchie, vomitazione di materie biliose, cardialgia, paralisi vescicale o emissione di urina semplicemente gialla, prostrazione delle forze organiche vitali e tinta itterica o subitterica in tutto il corpo». Malattia che, a detta di un medico locale, i contadini potevano curare tenendosi lontani dai campi di fave, astenendosi dal «mangiare siffatto legume verde, perché [avrebbero potuto] correre pericolo di vita», e alimentandosi con «il vino Marsala, il Vermut, i brodi, l’arrosto». Ma predicava al vento, il dottore villalbese: i contadini «non potendo comprare carne né vino Marsala, continuarono testardamente a coltivare e a mangiare fave, preferendo morire di zafara anziché di fame».
E se qualche anno c’era penuria di fave verdi, magari perché ne aveva fatto strage la lupa, i contadini potevano sempre fare come disse l’antico: Quannu la sorti nun ti rici, calati e cogghi vavaluci (quando il destino ti è avverso, abbassati e raccogli chiocciole).
Certo, a maggio le chiocciole non sono mai state cibo particolarmente indicato, se ha senso il motto: A cu’ la vita cci rincrisci, avi manciari a maju vavaluci e nn’austu pisci (colui al quale la vita rincresce deve mangiare a maggio chiocciole e ad agosto pesce). Tuttavia, anche in questo caso, morte per morte, era preferibile quella a stomaco pieno; a stomaco pieno per modo di dire, considerato che vavaluci a sucari e fìmmini a vasari ‘un ponnu mai saziari (chiocciole a succhiare e donne a baciare non possono mai saziare).
Rimane il fatto, comunque, che queste leccornie contadine erano, come il baccalà e la “tonnina” per la povera gente di città, carni di puvureddu. E, a differenza di questi prodotti che comunque si dovevano pagare, sia pure per pochi spiccioli, i vavaluci non costavano nulla: chiunque li poteva raccogliere in campagna. A onor del vero, anche i cittadini mangiavano, anzi succhiavano (e tuttora succhiano, specialmente in occasione del festino di Santa Rosalia) vavaluci, che a Palermo si chiamano babbaluci. Babbaluci a picchio pacchio o preparati con aglio, olio, pepe e prezzemolo, ma pur sempre chioccioline, di quelle che all’inizio dell’estate si trovano in letargo, riunite a grappolo tra le stoppie e le spine, attaccati ai pali del telefono o ai recinti di filo spinato, vavaluceddi insomma, per dirla nella parlata del mio paese natio: vavaluceddi di poca sostanza, che adesso si comprano a sangu ri papa.
Ben più grossi, e a mio giudizio più appetitosi, dei vavaluceddi sono gli attuppateddi, di colore grigio-verde, detti pure scanzirri o scataddrizzi. E non sono niente male neanche altri tipi di chiocciole come i vavaluci propriamente detti, che vanno in letargo nelle pietraie e sono conosciuti localmente anche come picureddi o vaccareddi; senza considerare i crastuna o barbanii, ossia i parenti più stretti dei ben noti escargot di cui sono particolarmente ghiotti i Francesi.
Comunque sia, non c’è specie di chiocciola che non venga allo scoperto dopo le prime piogge d’autunno. Ed è tutt’oggi allegro spettacolo vedere tante persone, talvolta anche di notte, con lampadine tascabili in mano in mezzo ai campi, in cerca di questi prelibati doni della Divina Provvidenza. Figurarsi all’epoca dei nostri avi, quando ogni fegatino di mosca faceva veramente sostanza.
«Odi qua» scriveva un secolo addietro Cristoforo Grisanti. «Appena d’autunno cessa un acquazzone, a costo di bagnarsi i piedi, altre [popolane], uscite di casa con sacchetti e panierini, divagan pian piano per le coste incolte, i calcari e gli orti di verzure, di mandorli e ficodindia prossimi al paese; altre, più animose, e se non piove, si dilungano per le vie, i sentierucci, le coste a maggese o pietrose, i burroncelli delle prossime campagne e van cercando e cogliendo dei gasteropodi, che dopo il lungo secco estivo, usciti dai loro nascondigli, con le antenne mobili e allungate, stanno o si muovono sulle erbe, sulle pietre, sulle piante umide o bagnate per pascere o respirare all’aperto».
Se raccolti immediatamente dopo il primo acquazzone d’autunno, questi provvidenziali animaletti vengono tuttora cucinati senza porre alcun tempo di mezzo, di solito prima lessi e poi insaporiti con olio, cipolla e salsa di pomodoro, salvo che non si tratti di attuppateddi, per i quali la morte giusta è un’altra: vengono sgusciati e fritti in padella, dopo il solito bagno nell’acqua bollente. Le chiocciole raccolte qualche tempo dopo l’uscita dal letargo sono invece piuttosto amare, avendo brucato l’erba dei prati. Bisogna perciò farle purgare per alcuni giorni chiuse dentro una pentola e alimentarle con crusca, prima di bollirle.
Questo in autunno. D’inverno, e per buona parte delle altre stagioni, chi voglia passarsi lo sfizio di mangiare vavaluci di qualsiasi specie, a meno di non trovarli bell’e cucinati in mezzo alla cenere di una siepe bruciata accidentalmente, deve andarseli a cercare sotto le pietre (col rischio di beccarsi un morso di vipera) o nei terreni incolti, dove è necessario affondare la zappa, per sorprenderli, immersi in un sonno profondo, nell’intimità delle loro inseparabili case dalle bianche porte di muco rappreso.
Ma, specialmente nel passato, c’erano anche altre discrete riserve di “sostanza selvaggia” a disposizione di chiunque sapesse attingervi. Una di queste era costituita dalle uova deposte dagli uccelli nei nidi. Nell’isola di Linosa, per esempio, sosta una colonia di circa diecimila turriachi (berte) che da oltre un secolo nel mese di aprile rifornisce di uova gli isolani. In diverse contrade di Sicilia un tempo si saccheggiavano disinvoltamente le risorse dei fiumi e dei torrenti, a cominciare dalle anguille che guazzavano nelle nache (gorghi, naturali o artificiali, scavati negli alvei fluviali) dove d’estate ristagnava l’acqua.
I metodi di pesca erano primordiali. «Alcuni – prendo di nuovo in prestito le parole di Cristoforo Grisanti – gittano degli ami forniti di esca dentro le acque; altri dei cofanetti di giunco, canna o verghe, come piccole nasse da pescatori, che lasciano affidati a funicelle e poi visitano e tirano su dopo ore o giorni. Se ciò non riesce, nelle ore in cui l’acqua del fiume viene fermata e raccolta su per l’uso dei tanti mulini, attassano (attossicano) le nache con tanto di calce viva, che basti a saturarne la massa dell’acqua. E allora, se ce n’è, le anguille, stordite dalla nuova sostanza, escono dalle tane, montano a galla, e vengono afferrate, spesso dopo molto stento, con lunghe tenaglie di ferro e gettate fuori. Se poi la calce non giova, ricorrono al latte di rizziteddu (Euphorbia myrsinites), tagliuzzato con molta cautela, il quale per esse è un tossico potentissimo e abbonda in queste contrade».
Nei pigri corsi d’acqua del Villafratese, ancora una cinquantina d’anni fa, oltre al lattice di rizziteddu si faceva talvolta uso di quello di un’altra specie di euforbia (camarruni) meno dannosa per chi la tagliuzzava; ma si ricorreva spesso anche ai candelotti di dinamite, la cui esplosione scaraventava fuori dalla naca non solo le anguille, ma anche sassi, radici di pioppi e salici, rane, girini, mignatte, bisce del collare…
Nei fiumi più grandi dell’Isola si pescavano anche trote e tinche, in tutte le pozzanghere granchi e rane. Spécialiste nella pesca delle rane erano ovunque le lavandaie che però raramente ne mangiavano la carne. Ma c’è un paese, in Sicilia, dove la gracidanti bestioline erano (e sono) particolarmente apprezzate: Paternò, i cui abitanti sono infatti conosciuti come manciaranunchi. Questo blasone popolare venne appioppato ai Paternesi almeno ai tempi di Pitré, se non prima.
La carne di tartaruga, animale benedetto da Dio perché riuscì a far ridere la Madonna dopo la crocifissione di Gesù, non si mangiava. «Guai a chi ne uccide una!» ammoniva anzi Giuseppe Pitré. «Gli seccherebbero tra otto giorni le mammelle (S. Stefano di Camastra), e gli pioverebbero tutti i mali di questa terra (Palermo)». Tuttavia nella Valle del Mela, almeno fino a una trentina d’anni fa, se preparata in brodetto, quella sostanza tabù era considerata una vera squisitezza, un peccato di gola su cui persino il Padre Eterno era disposto a chiudere un occhio, sempre che si osservasse un preciso rituale: bisognava che la bestiola fosse decapitata con un colpo secco, che se ne bruciasse alla svelta la testa (per impedirle di trasformarsi in serpente) e se ne bevesse immediatamente il sangue, che tra l’altro possedeva la rara virtù di combattere «cento mali». Quali fossero questi mali non ho ancora avuto la fortuna di scoprirlo.
Nessun potere speciale, che mi risulti, possedeva la carne d’asino. Anzi, su di essa gravava una vecchia maledizione divina. Eppure, almeno uno scomunicato di mia conoscenza la mangiava, e si leccava pure i baffi che non aveva: un tal Vanni Scorciavestii del mio paese. Di professione faceva il crivaru, fabbricatore di vagli di cuoio. E si aggirava spesso, con un affilato coltellaccio in mano, nei pressi della lavanca in cerca di carcasse equine da scuoiare… per rifornissi di materia prima, diceva lui. Ma certe malelingue tuttora giurano di averlo visto tornare tante volte con grossi tocchi di carne nel succuni.
Vanni, pace all’anima sua, era un tipo particolare, l’ultimo cercatore di scecchi morti del mio paese. Ma non era il solo testimone delle strategie di sopravvivenza affinate nella notte dei tempi. Mi tornano spesso alla mente tante ombre del passato: ragazzini con la fionda a caccia di taccole e rondoni, fior di bracconieri capaci di parare lacci e laccioli, trappole, scetti, balati… uccellatori con la cucca legata alla punta di una canna, mangiatori di ghiri e sorci di campagna, di ricci, volpi e gatti selvatici, stornelli e gazze ladre.
È passato da poco a miglior vita un altro villafratese che negli anni cinquanta andava a caccia di conigli senza fucile né cane, senza furetto. E non rincasava mai con il carniere vuoto, se carniere si poteva chiamare il panaru, panciuto contenitore di canne e bacchette d’oleastro da lui stesso intrecciate. Male che gli andasse, nella bella stagione il Nostro rimediava sem¬pre un saittunazzu di un rotulu (giovane coniglio selvatico dal peso di circa 800 grammi), tirato fuori dal nascondiglio, e qualche mamma di cuccuciuti (cappellaccia) catturata mentre covava le uova nel nido. Ignoro come facesse quell’uomo-cirneco a individuare le tane di coniglio; e mi è ancora più diffìcile immaginare la tecnica da lui usata per metter le grinfie sulla preda, considerato che quelle pavide bestiole amano tenersi a debita distanza dalla bocca del nascondiglio.
Conosco invece quella per catturare le mamme di cucucciuti, avendola io stesso più volte sperimentata per gioco da bambino. I cucucciuti, si sa, nidificano sulla nuda terra, come tante altre specie passariformi. Individuatone il nido, è necessario nascondersi nei pressi, in attesa che vi si aggiucchi la mamma. Dopo qualche minuto, basta avviarsi verso il nido battendo forte i piedi per trovarvi mamma cucucciuta più che mai aggiuccata, il ciuffo abbassato, appiattita sulla covata per proteggerla dalla minaccia esterna. Con uno scatto misurato, catturala è, appunto, un gioco da bambini.
Bambini di altri tempi, però, monelli di campagna espressi da un mondo dove giocare era anche un modo di allenarsi a sopravvivere.

di Giuseppe Oddo 

Palermo lì 15 – 02 – 2014

 

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