Magia del sorbo
di Pippo Oddo
Albero originario dell’Europa Meridionale, il sorbo (Sorbus Domestica) è diffuso dalla Spagna, alla Crimea, all’Asia Minore e, nemmeno a dirlo, in tutte le regioni d’Italia. In Sicilia è noto come arvulu (o pedi) di zorbi. Al suo legno sono tuttora attribuiti dei poteri magico-religiosi per proteggersi dai fulmini e da altri naturali potenzialmente mortali (terremoti, alluvioni, frane, smottamenti…). Se ne ha una testimonianza nella cosiddetta «Croce di Sorbo», della quale ho trovato sul web il sistema di preparazione, di cui sono specialiste le maghe:
«Si tagliano con un Athame (coltello consacrato) due ramoscelli di Sorbo, si uniscono a forma di croce, adattandoli in modo tale da ottenere una croce. Dunque con uno spago verde si intrecciano i punti dei rami dove si incrociano, per mantenere ferma e stabile la croce. Durante questa operazione (mentre cioè si mette lo spago per fissare i due ramoscelli a forma di croce), si recita si recita uno scongiuro, che ognuno può creare a suo piacimento. Quello più divulgato è il seguente: Per questa croce di sorbo io (nome di chi opera) proibisco a tutte le persone e alle fatalità avverse e ostili di entrare nell’abitazione e nella casa di (soggetto a cui volete donare l’amuleto, oppure se è per voi pronunciate il vostro nome). Io vi proibisco la sua carne e il suo sangue, il suo corpo e la sua anima. Io vi proibisco assolutamente di entrare nella sua mente, paure e forze, finché non avete valicato ogni collina e valletta, attraverso ogni torrente e fiume, contato ogni granello di sabbia su ogni spiaggia. E contate tutte le stelle del cielo notturno”».
È appena il caso di osservare che nel momento in cui la maga appunta sul petto la Croce biascica la seguente orazione: «Sopra il tuo petto questa croce sia Croce di Sorbo, Croce di Magia. Possa proteggere sempre la tua vita e notte e giorno tenerti al sicuro. Odi le mie parole. Io ti scongiuro, voglio comando e posso. Così sia!».
«I Celti – mi piace aggiungere con le parole di Loriana Mari – lo consideravano l’albero dell’Aurora dell’anno, in cui cadeva la “festa del latte” (Imbolc), poiché la celebrazione coincide con il primo fiorire del latte nelle mammelle delle pecore, circa un mese prima della stagione della nascita degli agnelli. Questo sottile segnale di ritorno della fertilità era il primo di una serie di eventi che annunciavano il rifiorire della vita sulla terra e, per la tribù, segnava l’urgenza di cominciare un nuovo ciclo di attività. Questa è la festa più intima e raccolta dell’intero anno sacro: all’interno delle palizzate che circondano il villaggio, chiusi nelle capanne coperte di neve, raccolti intorno al fuoco caldo e crepitante, i Celti ascoltavano le storie del proprio clan, rendevano omaggio alla Dea e si preparavano al risveglio del mondo. Tornando al nostro sorbo va detto che Celti Germani lo univano alla mela come nutrimento per gli dei e secondo i Finni era l’albero della vita ed ospitava la ninfa Pihlajatar. In rapporto con le potenze invisibili, il sorbo poteva anche proteggere efficacemente da quelle malvagie e quindi era usato come amuleto contro i fulmini ed i sortilegi. Nel romanzo irlandese “La razzia della mandria di Fraoch” le bacche di un sorbo magico, custodite da un drago, hanno la virtù nutritiva di nove pasti, risanano le ferite ed aggiungono un anno alla vita d’un uomo. Nell’antica Irlanda prima di combattere i druidi accendevano fuochi con legno di sorbo, appunto ed invitavano così gli antichi spiriti del gruppo a prendere parte alla battaglia. Col suo legno si scolpiva una piccola mano, detta di strega, che serviva a scoprire i metalli nascosti sotto terra, ma anche manici di fruste, atte a dominare persino i cavalli stregati, e bastoni da pastori, che proteggevano il bestiame anche dalle epidemie. I suoi frutti dolci e leggermente astringenti sono ricchi di acidi organici (tra cui l’acido sorbico è solo il più famoso), tannini, pectine e mucillagini; si possono far seccare e durano per tutto l’inverno. Un tempo si mangiavano, si mescolavano alla pasta del pane, se ne ricavava una salsa da accompagnare alla selvaggina e servivano anche a preparare una bevanda a bassa fermentazione, simile al sidro, che in Europa centrale si produce ancora adesso. I Romani la chiamavano “cerevisia”»