Il gelato: prelibatezza inventata in Sicilia
di Pippo Oddo
… Ivi è raccolta la neve la fragola gentil, che di lontano pur con soave odor tradì se stessa, vi è il salubre limon, vi è il molle latte…
Quando il poeta Giuseppe Parini (prete brianteo fin troppo sensibile al fascino del gentil sesso e vero estimatore delle raffinatezze culinarie) tesseva con questi versi le lodi del gelato, i gelatieri siciliani si erano fatti apprezzare nelle maggiori capitali europee da almeno un secolo. E i sorbetti di Sicilia, confezionati a mo’ di frutta, avevano raggiunto un così alto livello di perfezione da sembrare doni del Creatore. Traevano perciò in inganno persino i più navigati uomini di mondo.
A fare la figura del provinciale di fronte a uno di questi capolavori di arte dolciaria fu, nel giugno 1770, persino Patrick Brydone, «gentiluomo scozzese di 34 anni che univa alla facilità di scrittura un notevole interesse per i viaggi ed una viva curiosità scientifica», il quale fu casualmente invitato a un pranzo offerto dalla nobiltà di Girgenti al proprio vescovo. «Perché – spiega Giuseppe Pitrè – finita la seconda portata, e presentatoglisi a guisa di retroguardia, altra maniera di gelati, un servitore gli pose davanti una bella e grossa pesca, che egli prese per frutta naturale: e tagliatela in mezzo, e portatene la metà in bocca, a bella prima ne rimase scosso, e come per allargare lo spazio gonfiò la gote. Ma l’intensità del freddo vincendola sul ripiego e sulla sofferenza, egli la palleggiò con la lingua, poi non potendo più oltre resistere, con gli occhi rossi di lacrime la rigettò disperato nel piatto, bestemmiando come un turco e imprecando al servitore, dal quale si credette burlato quasi gli avesse offerto per quel frutto una palla di neve dipinta».
Nelle principali città siciliane a quell’epoca non c’era ricevimento ufficiale, riunione mondana, serata danzante o festa di gala che si concludesse senza spreco di sorbetti. A tal proposito basti ricordare un episodio già annotato nel Diario del Marchese di Villabianca e riproposto ai lettori da Pitrè nel primo volume della sua prestigiosa opera La vita in Palermo cento e più anni fa. Nel corso di una sfarzosa cena servita il 13 maggio 1799 nell’esclusiva cornice della terrazza del Palazzo Butera, per l’occasione convertita in galleria coperta, mentre due orchestre di strumenti a fiato gareggiavano in virtuosismi nel tentativo di ingraziarsi la crema dell’aristocrazia siciliana e le più alte sfere della gerarchia militare, la neve consumata per i gelati fu di 40 carichi, ossia cinque tonnellate, chilogrammo più, chilogrammo meno.
Naturalmente non in tutti i conviti si scialava così, e non capitava tutti i giorni di veder gozzovigliare insieme circa trecento fra gentiluomini e gentildonne. Ma se c’era anche un solo ospite di riguardo, si poteva star certi che le mense dell’aristocrazia e degli stessi conventi sarebbero state arredate di tutto punto con cristalli di ottima fattura, piatti e posate d’argento, vasi d’oro, spesso cesellati dai migliori artisti; le portate sarebbero state numerose e ben assortite, e così gli intramezzi e i tornagusti, il post pasto e i sorbetti. Da questa regola non derogava nemmeno la più scalcinata nobiltà di provincia.
Se ne rese conto l’abate Paolo Balsamo quando, nella primavera del 1808, fu invitato a pranzo dal Cavalier Rossi di Modica. «Vivande, vini, frutti, sorbetti, caffè, liquori fecero bastantemente copia di se per delicatezza e varietà; e non si notò isbaglio o imbarazzo di sorta alcuna nel dispensarli: e spiccò nei convitati la più vivace giocondità, senza che in venti, o più persone si fosse osservato gesto, o sentita parola, la quale avesse potuto in loro annunziare poco uso di pulite, e costumate maniere». Sappiamo dallo stesso Balsamo che durante il suo soggiorno modicano ricevette altri inviti che poi presero forma di gioiose feste. Anche in queste riunioni non dovette registrarsi penuria di sorbetti, dato che il bel mondo di Sicilia era allora fedele al motto «Noblesse oblige». E tra gli obblighi morali dell’aristocrazia uno dei più onorati era quello d’introdurre gli ospiti alle delizie della gola. Persino le manifestazioni religiose si concludevano col rinfresco.
Ebbe modo di testimoniarlo autorevolmente un viaggiatore inglese che, trovandosi a Palermo nel dicembre 1841, partecipò a una coloratissima processione in compagnia del Duca di Serradifalco. Ad aprire il corteo, cui parteciparono le massime autorità cittadine, molti aristocratici e i più alti dignitari ecclesiastici sotto un bel baldacchino di broccato d’oro, furono i popolani con torce di stoppie accese, seguiti «da contadini che suonavano cornamuse, tamburelli e castagnette»; sfilarono immediatamente dopo alcuni penitenti a piedi ignudi e corone di spine in testa. E poi due confraternite: quella «dei signori Spazzini», i quali, armati di scope nuove, «spazzavano la strada per il passaggio dell’Immacolata» e un’altra che, provvista di ceste con erbe e fiori, trasformava il percorso in una sorta di prato fiorito. Dietro di questa s’incolonnò «un gruppo di penitenzieri in bianco, con scarpe e cappucci dello stesso colore». C’era, insomma, di tutto in quella processione: c’erano «monaci neri», varie confraternite e semplici fedeli con bandierine d’argento, c’era persino «la milizia volontaria cittadina con la sua banda» che evocava l’immagine di «un curiosissimo corpo di cavalleria». E c’era «la statua dell’Immacolata, con il suo altare e i suoi ceri, portata a spalla da sessanta trasportatori e accompagnata da altri sessanta che indossavano la stessa uniforme, pronti a dare il cambio ai primi». Chiudevano il corteo un reggimento di guardie e dragoni e «le carrozze di rappresentanza dei governatori, senatori e degli altri personaggi importanti».
Ma forse nulla di tutto questo risultò più gradito all’ospite straniero del rinfresco che gli fu servito alla fine: «Ci congedammo dal Duca dopo che questi ebbe offerto a tutta la compagnia quei deliziosi gelati di pistacchio per i quali Palermo va giustamente famosa e che, nonostante si fosse in dicembre, sono un vero lusso, e anzi, con questo clima, qualcosa di quasi necessario». E non conosceva, il Nostro, quell’autentico trionfo della gola che i Siciliani hanno sempre chiamato “scursunera”, gelato di gelsomino che, a volerlo servire come Dio comanda, va sempre insaporito con un pizzico di cannella.
Pistacchio, gelsomino, cannella, limone: sapori, odori, colori d’Oriente; prelibatezze ghiacciate che i siciliani ricchi consumano da una dozzina di secoli. Ma i poveri non si potevano concedere lussi di questo genere. Anche se del sorbetto avevano sempre sentito parlare, e spesso anche narrare mirabilia, fino a non molti decenni addietro il massimo di refrigerio che si erano potuti permettere i popolani era stato un bel bicchiere di acqua ghiacciata con poche gocce di zammù (distillato di anice), oppure qualche frutto di ficodindia raccolto all’alba, ancora bagnato dalla brina. Né poteva trarre in inganno il fatto che i contadini mangiassero una o due volte all’anno il cosiddetto gelato di campagna. Quel dolce era tutt’altro che refrigerante: metteva sete, come il torrone, la cubbaita e altri dolci inventati dagli Arabi e venduti nelle bancarelle in occasione delle principali feste religiose.
Comunque, già nella prima metà del ventesimo secolo, in occasione della festa del Patrono, anche nei villaggi rurali cominciarono a esser posti in vendita i primi pezzi duri. Ma chi li poteva comprare? I galantuomini e i preti, insomma i cappeddi, gente che aveva roba al sole, toh!, anche qualche artigiano che portava il don da casa sua, i campieri che arraffavano a man salva, e la mammana, forse. Chi altro, nelle campagne, conosceva il sapore del gelato? Se si escludono le criate (servette tuttofare), le perpetue e i leccastivali, nessuno. O quasi.
Bisognava aspettare il secondo dopoguerra perché i prodotti di sorbetteria cominciassero a esser consumati anche dai ceti popolari, e non senza l’indignazione degli ultimi galantuomini che gridavano allo scandalo tutte le volte che vedevano un contadino con un gelato in mano: per loro il mondo girava alla rovescia. Di conseguenza quei campagnoli che avevano la fortuna di frequentare saltuariamente la città, per prima cosa andavano a comprarsi un gelato, convinti di non scandalizzare nessuno, lontani com’erano dagli occhi indiscreti dei cappeddi del paese.
Ma cadevano dalla padella nella brace: «I cittadini – a detta del gastronomo Giovanni Coria – li prendevano in giro chiamandoli acqui tisi, cioè acqua solida, rigida, tesa; e per un certo tempo anche i gelati presero lo stesso nome». Si racconta anzi che erano spesso certi burloni di città ad offrire il gelato ai paesani, pur di godersi lo spettacolo di vedergli affiorare in viso le smorfie più strane, quando non gli avvolgevano il gelato in una foglia di cavolo per farglielo portare al paese. Comunque, barzellette a parte, in Sicilia il gelato ha una storia antica come in nessun’altra regione del mondo.
L’uso di consumare frutta ghiacciata era per la verità conosciuto dagli antichi Egizi, anzi dai fortunati mortali che ronzavano attorno al Faraone. Sembra inoltre che i ricchi Persiani la modellassero a forma d’uovo e che, tra una battaglia e l’altra, Giulio Cesare non rinunciasse ai succhi di frutta ghiacciati. Ma all’invenzione del sorbetto, il parente più stretto del gelato, non fu affatto estranea la Sicilia, anche se il merito principale è universalmente riconosciuto agli Arabi.
«Giunti infatti in Sicilia – scrive non senza una punta d’orgoglio Coria –, essi scoprirono non solo la neve, ma anche i nevaroli, cioè persone che per mestiere andavano sui monti, scavavano delle fosse profonde (esposte a nord), le riempivano di neve e le tappavano per bene. Poi in estate prelevavano carichi di neve e la vendevano quando il caldo premeva, ed era piacevole avere dell’acqua fresca o bevande ghiacciate. Ecco allora gli arabi sfruttare questa neve: la insaporivano dolcificandola, e la profumavano con gli aromi. Nasce così il sorbetto, antesignano di gelati e granite: prima il sorbetto al limone, poi quello alla scorzonera».
I Normanni concessero ai Vescovati estesi possedimenti comprese le nivere con l’obbligo, però, di approvvigionare di neve le città sedi delle curie. Al vescovo di Catania concessero buona parte delle falde dell’Etna e le cosiddette tacche di neve, profonde insenature tra le colate laviche dove la candida manna si accumulava naturalmente. Per raccoglierla in quantità apprezzabile, e senza troppe impurità, erano necessarie alcune operazioni precise.
«La prima di queste – osservava all’inizio del Novecento un celebre geologo francese – si effettua in ottobre, e consiste nel far ripulire le tacche, togliendone le pietre che vi fossero cadute dentro, e le foglie o le sudicerie rimaste dopo l’estrazione di neve dell’anno precedente. Dopo che, nel mese di febbraio, la neve s’è accumulata nelle infossature del suolo, una squadra di 50 o 60 operai si reca in marzo sulla montagna, e con lunghe aste di ferro graduate rileva la profondità dello strato nevoso. Lo scavo si limita ai punti dove lo spessore della neve raggiunge i tre metri; e di queste zone utilizzabili sono indicati i limiti per mezzo di mucchi di cenere eruttati dal cratere».
Da notare che tutti i lavori preparatori si facevano di notte: «Al lume della luna o della torce, gli operai ricoprono la superficie utilizzabile con uno strato di cenere alto 30 centimetri, avente agli orli uno spessore doppio; e lo scopo di siffatta copertura è il difendere la neve dai caldi raggi solari. In tal modo si preparano quattro o cinque tacche, a seconda dell’abbondanza della neve, che vengono aggiudicate a un imprenditore, il quale è passibile di una fortissima multa nel caso che lasciasse Catania priva di neve».
Più complesse erano le operazioni di raccolta: «Giunta l’estate per raccoglier la neve si sbarazza quest’ultima [la tacca] del suo mantello di cenere e poi se ne divide la superficie in una rete di tanti rettangoli per mezzo di strumenti di ferro, che vanno sino a metri 1,50 di profondità. Lungo il giorno un po’ di neve è fusa dal sole e l’acqua che penetra nei solchi scavati nella massa si congela durante la notte seguente; in tal modo la neve può esser divisa in blocchi parallelepipedi, che hanno le facce congelate. Questi blocchi vengono ricoperti con foglie di felci e di castagno, poi sono chiusi entro sacchi, di cui un paio per ogni animale è portato a dorso di muli e su carri; la neve è distribuita a Catania e alle città vicine».
Ma tutte le città siciliane erano approvvigionate di neve. Neve che si raccoglieva anche su monti diversi dall’Etna. A Girgenti (Agrigento), per esempio, la neve arrivava dal monte Cammarata. A Palermo c’è ancora un toponimo che ricorda questa antica attività che legava la pianura alla montagna, l’entroterra alla costa: Vicolo della neve all’Alloro. In questa vecchia stradina un tempo arrivavano tutti i giorni retini di muli e asini carichi di blocchi di ghiaccio intagliati nelle nivere delle Madonie e di Rocca Busambra: ci fosse caldo o freddo, la nobiltà palermitana non rinunciava mai ai sorbetti e alle bevande gelate. Era, tra l’altro, opinione diffusa in tutta la Sicilia che le bevande fredde facessero bene alla salute. La carestia di neve era perciò considerata «un danno uguale a quella del vino e dell’olio», occasione di disordini persino, come testimonia il pittore francese Jean Houel che si trovava in Sicilia un brutto giorno che i Siracusani si diedero all’arrembaggio di un natante carico di neve, «con perdita di alcuni di loro nel conflitto». Si comprende quindi bene perché nel 1761 la Principessa di Villafranca, padrona dello Stato di Buccheri, stabilì con un bando del governatore che nessun vassallo potesse raccogliere anche una sola palla di neve prima che si riempissero tutte le sue nivere (grotte e ripari in pietra vulcanica a secco con copertura a cupola o a volta). E non è senza ragione che ancora adesso il più grande industriale siciliano del gelato sia, appunto, il Principe di Villafranca.
Né erano soltanto quelle cui abbiamo accennato le nivere di Sicilia. Ce n’erano tante altre a fossa o a pozzo sullo stesso Monte Lauro, su Pizzo Cane, Monte San Calogero, Pizzo Niviera, Monte Genuardo, la Pizzuta, Monte Barracù, Montagna delle Rose; ce n’erano persino sulle modeste alture che fanno da corona alla Conca d’oro (Monte Cuccio) e in provincia di Trapani: sul Monte Inici e su un’altura boscosa nei pressi di Vita. «Nei paesi attorno alle Madonie – assicura Luigi Romana – fino alla seconda guerra mondiale si produceva il gelato con il ghiaccio proveniente dalla montagna, se lo ricordano benissimo gli anziani Mario Fiasconaro di Castelbuono, Domenico Sottile di Isnello, Domenico Ferrara di Locati, gelataio ambulante fino agli anni ‘50 del secolo scorso. Da alcuni anni il CAI di Polizzi Generosa organizza la Festa della Neve, una manifestazione gioiosa che fa scoprire ai partecipanti la sorpresa della neve nella stagione estiva. Grazie ai preziosi ricordi dell’anziano Peppino Intravartolo, morto recentemente, è stato possibile localizzare la neviera a pozzo di Piano Principessa, a 1860 m di altitudine, dove il ghiaccio riesce a conservarsi quasi naturalmente e con pochissimo intervento umano sino alla fine di luglio».
In quale altra terra, se non in Sicilia, il sorbetto poteva evolversi in gelato e granita? Dove poteva essere inventata la cosiddetta giardiniera, quella «fresca delizia al cedro, alla fragola e al pistacchio, sormontata da colorati canditi», che lo chef della gelateria Ilardo nel 1860 preparò per Garibaldi, ispirandosi ai tre colori della bandiera nazionale? La giardinetta è tuttora una delle specialità che si gusta da Ilardo. «Questo storico bar, racchiuso in una piccola porzione delle mura delle “Cattive” –, nota Valentina Caviglia – è un paradiso per golosi e amanti delle ricette locali che qui potranno gustare il loro gelato godendo della vista del mare».
Eppure c’è chi sostiene che il gelato vero e proprio, cioè il mantecato di crema, sia stato inventato a Firenze nel secolo XVI, forse per opera di Bennardo Buontalenti. Se così fosse stato, non si capirebbe perché Caterina Dei Medici, che ne diffuse il consumo in Francia, si sia circondata di gelatai siciliani. Ancora più stupefacente è leggere nell’enciclopedia per ragazzi Vita Meravigliosa: «Inventore della macchina dei gelati ancora adottata per l’uso domestico (un recipiente metallico con agitatore a spatola, posto in un mastello per contenere il ghiaccio) fu un altro fiorentino, Procopio Coltelli».
Ma non c’è campanilismo che tenga di fronte ai fatti: Francesco Procopio dei Coltelli (e sottolineo la preposizione articolata) era uno squattrinato nobile siciliano, capace di sopperire all’ormai cronica mancanza di denaro con la ricchezza del suo ingegno. Non per nulla fu il primo ad aprire, nel 1686, un caffè all’italiana a Parigi, il Café Procope. Da vero uomo di mondo, Procopio dei Coltelli dimenticò le due ultime vocali del proprio nome, ma non certo le ricette di casa sua. Servì ratafià, rosoli, maraschino, anice, grappe variamente aromatizzate, spremute di limone e, ultima meraviglia, sorbetti e gelati. E, insieme a tutte queste cose, anche un tocco di raffinatezza che poteva solo albergare in un gentiluomo siciliano. Onore alla verità, dunque; onore alla fantasia creativa di questo intraprendente figlio di Sicilia!
Pippo Oddo
Palermo 19 ottobre 2013